Claudia Durastanti e Marco Mancassola, che coordinano il gruppo di lavoro, parlano con ilLibraio.it della prima edizione del Festival of Italian Literature in London (20-21 ottobre). Si soffermano sulla genesi, gli obiettivi e il futuro della manifestazione, sul contesto in cui si inserisce, sui temi che verranno affrontati nei vari incontri, sulle reazioni dell’ambiente culturale e accademico inglese. E, tra le altre cose, parlano delle “comunità di intellettuali e militanti italiani” attive nella capitale inglese – L’intervista

L’appuntamento con la prima edizione del Festival of Italian Literature in London è al Coronet Theatre di Notting Hill, il 20 e 21 ottobre. La nuova manifestazione, organizzata da un gruppo di autori, giornalisti e accademici italiani a Londra in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura e il Salone del Libro di Torino, coinvolgerà autori italiani, britannici e provenienti da altri paesi (sul sito ufficiale il programma e tutti i dettagli, ndr). Protagonista non sarà solo la letteratura, come spiegano in un’intervista a ilLibraio.it gli scrittori Claudia Durastanti e Marco Mancassola, che coordinano il gruppo di lavoro.

FILL - Festival of Italian Literature in London

Quando è nata l’idea del festival?
MM: “È nata prima del referendum Brexit, ma è stato dopo lo sgomento per quel voto che con alcuni altri autori e giornalisti italo-londinesi si è iniziato a parlarne con più determinazione. Nel mezzo nel caos politico e del tumulto post-Brexit, ci siamo noi che ci sediamo a un tavolo in un caffè dalle parti di Piccadilly e ci mettiamo a organizzare un festival letterario italiano. Marco Delogu dell’Istituto di Cultura ha accolto subito il progetto ed è stato un bell’esempio di incontro fra un progetto dal basso e una sede istituzionale”.

Quali sono gli obiettivi della prima edizione?
MM: “Posto che questa prima edizione è un grosso esperimento, l’obiettivo è sfruttare la condizione di confine fluido in cui ci troviamo. Siamo una comunità italiana in una città-mondo di altre comunità, viviamo l’esperienza dell’espatrio e ora quella di una cittadinanza precaria, in una città in bilico nel mezzo di un passaggio storico. A partire da queste coordinate ci siamo chiesti di cosa ci interessasse parlare, quali autori ci interessasse ospitare”.

In Europa quotidianamente si discute degli effetti della Brexit, di terrorismo, di accoglienza e integrazione dei migranti, di razzismo, oltre che di diseguaglianze economiche. In questo contesto Londra, città che tra l’altro ogni anno attrae migliaia di italiani, giovani e non, sta giocando un ruolo a suo modo centrale. La sede del festival, dunque, non sembra essere stata scelta a caso…
MM: “Non abbiamo scelto Londra: per una varietà di ragioni, chi volentieri e chi meno, ci viviamo. Godiamo della sua ricchezza culturale, ma ne paghiamo il prezzo carissimo. La rendiamo una città anche italiana, e per questo possibile sede di un festival culturale italiano. Poi, Londra è oggi un occhio del ciclone, un avamposto, un luogo dove si sentono le questioni della cultura occidentale e globale sfregare l’una contro altra. La contraddizione fra Brexit e cosmopolitismo di Londra è quella più vistosa. Ma, per fare un altro esempio che ci sta a cuore, c’è il modo in cui l’immigrazione anche qui domina di continuo i titoli dei giornali, senza però che si parli molto dei migranti nel Mediterraneo, che chiaramente non sono considerati un problema britannico. E per questo abbiamo deciso di ospitare Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, che lancerà da noi l’edizione inglese del suo libro con la co-autrice Lidia Tilotta e con Clare Longrigg del Guardiann”.

Se doveste sintetizzare i fili conduttori che legano gli incontri, in cui si parlerà, tra le altre cose, di Brexit, letteratura, politica italiana, cittadinanza, quali individuereste?
MM: “Questo è un festival letterario italiano, ma abbastanza fluido sia su cosa significhi ‘letterario’ che su cosa sia ‘italiano’. I fili conduttori sono i confini, il confronto Italia-UK, le migrazioni geografiche e linguistiche. I ‘citizens of nowhere’ tanto temuti da Theresa May diventano occasione di un dibattito letterario con Melania Mazzucco e l’autrice franco-americana Lauren Elkin. La performance poetica che ospiteremo, espressamente commissionata dal festival e curata da una giovane autrice e accademica della Goldsmith University, Livia Franchini, ragiona e gioca sull’appartenza della lingua italiana”.

È un caso che la presenza femminile tra i relatori degli incontri sia così alta, o è una scelta?
CD: “Credo sia un riflesso spontaneo del panorama letterario attuale. Ci sono saggi e romanzi che ci interessavano e sono stati scritti da donne. Abbiamo cercato di tenerci al riparo dal tokenism invitando ospiti che avessero qualcosa da dire sui temi del Festival; anche la squadra degli organizzatori è abbastanza equilibrata. Allo stesso tempo una discussione sul tema va fatta, perché nonostante lo scorso aprile la classifica dei primi dieci libri venduti in UK fosse composta solo da donne, nonostante una scrittura che si rinnova e cerca di ribaltare il genere attraverso un uso creativo dei pronomi come fanno Sara Taylor (che sarà con noi al Festival), Maggie Nelson e altre autrici, c’è ancora una ritrosia a considerare questi libri e questi testi come qualcosa di condiviso. Un uomo bianco scrive romanzi universali, una donna parla sempre di cosa significa esserlo. Molte cose stanno cambiando, ma non abbastanza in fretta”.

Sono tanti gli autori, i professionisti dell’editoria e gli accademici italiani che vivono e lavorano a Londra: esiste una “comunità” di giovani intellettuali italiani nella capitale del Regno Unito?
CD: “Esistono tante comunità di intellettuali e militanti italiani a Londra, che in parte corrispondono alle comunità in Italia con cui continuano a mantenere un legame. In altri casi si tratta di autori e professionisti che si sono formati solo qui in UK, e sono molto più in sintonia con la scena locale, con il suo orientamento e le sue tendenze. La cosa bella di FILL è che rappresenta un momento di aggregazione per tutte queste forze: non è solo un momento di scambio tra Italia e Inghilterra, ma è uno scambio tra le tante forme di Italia che vivono in Inghilterra. L’obiettivo è coinvolgere vari tipi di professionalità che aiutano questa città a funzionare ogni giorno: non vogliamo essere un Festival solo di addetti ai lavori”.

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Com’è stato accolto il nuovo festival dall’ambiente culturale e accademico inglese?
MM: “Con un misto di entusiasmo fortissimo e di indifferenza. L’ambiente culturale inglese è fatto di molti più estremi di quello che potrebbe sembrare. La dinamica più difficile da far passare è che questo non è un festival ‘etnico’, una cartolina assemblata per compiacere l’immagine della middle class inglese sull’Italia. Non parliamo di cibo e se parliamo di Elena Ferrante non è per ripetere cose già sentite, ma per discutere di ciò che è venuto dopo la scrittrice napoletana. Non siamo qui per compiacere, siamo qui per sfidare gli intellettuali britannici anche sul loro stesso campo, senza complessi di inferiorità”.

Ma l’effetto-Ferrante sta agevolando la traduzione delle opere degli scrittori italiani contemporanei da parte degli editori inglesi.
CD: “Certo, infatti il Festival si aprirà con un evento intitolato After Ferrante all’Istituto Italiano di Cultura a Londra, prima di trasferirci tutti al Coronet di Notting Hill. È stato ideato dal Direttore dell’Istituto Marco Delogu e promosso con alcune case editrici che hanno scelto di investire in questa nuova ondata letteraria; solo l’anno scorso sono stati tradotti sessanta libri di autori italiani per il mercato UK. Tuttavia, senza un lavoro contestuale sulla cultura della traduzione, sulla specificità delle diverse storie italiane che si possono raccontare – anche quelle più nascoste e strane che non hanno nulla a che fare con l’epica della criminalità o della sopravvivenza – questo trend rischia di esaurirsi in breve tempo. Il caso della Ferrante insegna a prestare attenzione a quello che di solito è marginale (in questo caso la storia di due amiche in un rione), e sarebbe bello tenere viva questa sua intima trasgressione rispetto alle regole del gioco: il dopo Ferrante funziona solo se si cerca qualcosa che non è Ferrante. Sapere che sta influenzando autrici nelle Filippine quanto in California può indurre una certa forma di ‘orgoglio nazionale’, ma la cosa importante è l’aver immesso una serie di idee nuove nel mercato editoriale, che possono essere tradotte in qualsiasi lingua. È una questione di abbattimento dei confini, più che di rinforzo degli stessi.

In attesa della prima edizione, avete già iniziato a immaginare il futuro del “Festival of Italian Literature in London”?
CD: “Stiamo avendo un’ottima risposta da parte del pubblico, anche grazie all’aiuto dei nostri partner. Arrivano tante idee e proposte, aspettiamo di chiudere questa prima edizione per fare un bilancio, ma direi che abbiamo materiale sufficiente ad andare avanti per anni. Un obiettivo è quello di inglobare ancora più discipline e linguaggi, dalla storia contemporanea alle arti performative. A me un panel sulla trap all’italiana e la specificità del grime piacerebbe. E poi resta da vedere cosa succederà con Brexit”.

 

 

 

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